lunedì 8 febbraio 2010

KAFKA

di Franz Krauspenhaar

Kafka, quanta disperazione in quell’insetto
che ronzava sopra la mia testa, una specie
di mosca viola, la metamorfosi di un sogno
all’apertura di un libro, giovinetto come
l’angoscia di chi non sa, di chi dietro
le curve dell’incanto spegne fuochi
polverizzati, senza un significato.

Kafka, da un castello silenzioso,
guardava se stesso girare, là sotto,
cercare l’entrata al labirinto, taglio
netto nella gola; il suono d’urlo
non si emette, il silenzio è fuoco
di maglie strette, di prigione,
l’uomo è vinto al suo secolo
perenne, lento, giunto fin qui.

Kafka, in quell’America di fossili
pulsanti e circhi folli e navi nere
e trionfanti come le piattaforme
di un vampiro. Nosferatu nel bianco
del sogno, ottuso, compagno
d’aliti nel viaggio continentale.

Kafka al processo, milioni di anime
e danni e colpe scorse come pieghe
dagli anni, la colpa d’un’esistenza
fallita, grigia; sinfonica accettazione
del nulla, della perdita di un senso.

Tornando al cambiamento surreale,
di ritorno da un viaggio sopra pagine
che prima di morire lui voleva nere,
illeggibili nella sparizione; e appare
il mondo un cupo, lungo risveglio,
un tenebroso abbandono alla calma
irreale. Kafka ci abbandona al niente,
a questo dolerci dentro l’interrogarci.

Le iniziali mi fecero spavento, le mie stesse,
F e K e la Boemia come terra d’origine
e il padre della lettera, così a trovare
ossa spoglie, lasciate nelle nostre stesse terre.
Non saprei chi sono se non ci fosse
Kafka, a dimostrarmi che fui altro,
prima di poterlo sapere. Kafka è il dono
d’un rampicante invincibile,
d’un verbo immenso che tiene ogni frase,
concetto, salto, discesa e prigione.

Nei miei quindici anni leggevo i racconti
come resoconti di un fantasma. Cercavo
nelle note il diagramma, la spiegazione
di ciò che era inspiegabile. Leggevo
parole incomprensibili di filosofi attenti,
maniacali, votati per la vita all’esegesi.

Max Brod lo vedevo pesante, un macigno
sopra di lui e dentro di sé, grasso compresso
dal voto d’infedeltà. Non volle buttare
al vento le nervature del genio, volle invece
trasportare quell’opera già nata postuma
per i lunghi raccordi di pietra della storia.

Di fronte a quelle pagine erette e pulite,
distoniche e assurde, l’esistenza si spiega,
come nessun filosofo può ardire.
Nessuna sentenza certa, ma la fantasia
di ciò che ci è vicino, dentro, tra occhi
e lingua e tatto, di cui tutto ha l’impregno.
Kafka tracciò le note oceaniche del moderno
sentire e del procedere senza ore,
né bussole, né porti di vero attracco salvo.

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