Il ricordo dell'Olocausto deve rimanere indelebile nella memoria
collettiva come un monito contro la violenza, l'odio e la
discriminazione. È doveroso rendere onore alle vittime dei campi di
concentramento, non solo agli ebrei, ma anche ai Rom, agli omosessuali,
ai disabili, ai partigiani, ai prigionieri politici e di guerra. Ognuno
di loro ha subito un destino crudele, spinto dall'intolleranza e dalla
deumanizzazione. Il genocidio perpetrato dai nazisti è una ferita che
deve essere ricordata con la massima gravità, affinché simili atrocità
non abbiano mai più luogo. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che non
possiamo accettare passivamente un atteggiamento che minimizzi il
dolore e la sofferenza di altri popoli, a partire dal popolo
palestinese. La condanna per la violenza e la barbarie non deve essere
selettiva. Non possiamo fare distinzioni tra le vittime in base alla
loro identità etnica o religiosa. Le parole di Liliana Segre, rispettata
come voce di una sopravvissuta all’Olocausto, non possono essere
esentate da una critica severa quando si rivelano insufficienti o
indifferenti di fronte alla tragedia che sta affliggendo il popolo
palestinese. La minimizzazione della strage in corso, il rifiuto di
riconoscere la portata del genocidio, sono inaccettabili. Il fatto che
una persona che ha subito la violenza dell’odio e del razzismo possa
giustificare o tacere di fronte a un'altra forma di violenza genocida è
un paradosso che non può essere tollerato. La memoria della Shoah
dovrebbe insegnarci l'uguaglianza, la solidarietà e il rispetto per la
dignità umana in ogni sua forma. Non possiamo permettere che la
sofferenza di un popolo venga ignorata o ridotta a una questione di
interesse politico. Chi ha vissuto l’orrore della deportazione dovrebbe
essere il primo a sollevarsi contro ogni forma di oppressione, a lottare
per i diritti di tutti, senza distinzione di etnia, religione o
nazionalità. La violazione dei diritti umani, in qualsiasi parte del
mondo, deve essere condannata senza ambiguità. Non possiamo permettere
che il dolore di un popolo venga oscurato o giustificato, nemmeno quando
proviene da chi ha vissuto l’orrore. La giustizia, la pace e il
rispetto per la vita umana devono essere valori universali, condivisi da
tutti. Non basta ricordare le vittime dell'Olocausto, dobbiamo
attivamente lottare per un mondo in cui ogni individuo, ovunque, possa
vivere con dignità, senza subire la violenza di oppressori indifferenti
alla sofferenza altrui. Non si tratta di antisemitismo, si tratta di
rispetto dell'umanità che sembra, la Signora Segre, abbia dimenticato.Federica Crasci
“Non aspettatevi che il mondo faccia giustizia per voi”. Il testamento di Yahya Sinwar
Sono Yahya,
il
figlio di un rifugiato che ha trasformato l’esilio in una patria
temporanea e ha fatto del sogno una battaglia eterna. Mentre scrivo
queste parole, ricordo ogni momento della mia vita: dalla mia infanzia
nei vicoli, ai lunghi anni di prigionia, a ogni goccia di sangue versata
sul suolo di questa terra.
Sono nato nel campo di
Khan Yunis nel 1962, in un periodo in cui la Palestina era solo un
ricordo lacerato e mappe dimenticate sui tavoli dei politici.
Sono
l’uomo che ha intrecciato la sua vita tra fuoco e cenere, e ha capito
presto che vivere sotto occupazione significa non avere altro che una
prigione permanente.
Sapevo fin da giovane che la
vita in questa terra non è come qualsiasi altra, e che chi nasce qui
deve portare nel cuore un’arma indistruttibile, e capire che la strada
verso la libertà è lunga.
Le mie volontà per voi
iniziano qui, da quel bambino che ha lanciato la prima pietra contro
l’occupante e che ha imparato che le pietre sono le prime parole con cui
possiamo farci sentire da un mondo che osserva silenzioso le nostre
ferite.
Ho imparato nelle strade di Gaza che una
persona non si misura per gli anni della sua vita, ma per ciò che dà
alla sua patria. E così è stata la mia vita: prigioni e battaglie,
dolore e speranza. Sono entrato in prigione per la prima volta nel 1988 e
sono stato condannato all’ergastolo, ma non conoscevo la via della
paura.
In quelle celle oscure, vedevo in ogni muro
una finestra verso l’orizzonte lontano e in ogni sbarra una luce che
illuminava il cammino verso la libertà. In prigione, ho imparato che la
pazienza non è solo una virtù, ma un’arma… un’arma amara, come qualcuno
che beve il mare goccia dopo goccia.
Il mio consiglio
per voi: non temete le prigioni, poiché sono solo una parte del nostro
lungo cammino verso la libertà. La prigione mi ha insegnato che la
libertà non è solo un diritto rubato, ma un’idea nata dal dolore e
affinata dalla pazienza.
Quando sono stato rilasciato
con l’accordo “Wafa al-Ahrar” nel 2011, non sono uscito come ero prima,
ne sono uscito più forte e la mia fede è aumentata nel fatto che quello
che stiamo facendo non è solo una lotta passeggera, ma piuttosto il
nostro destino che portiamo fino all’ultima goccia del nostro sangue.
Il mio consiglio è di rimanere fedeli all’arma, alla dignità che non può essere compromessa e al sogno che non muore mai.
Il
nemico vuole che abbandoniamo la resistenza, per trasformare la nostra
causa in una negoziazione senza fine. Ma vi dico: non negoziate per
quello che vi spetta di diritto. Temono la vostra fermezza più delle
vostre armi.
La resistenza non è solo un’arma che
portiamo con noi; è piuttosto il nostro amore per la Palestina in ogni
respiro che prendiamo, è la nostra volontà di rimanere, nonostante
l’assedio e l’aggressione.
Il mio consiglio è di
rimanere fedeli al sangue dei martiri, a coloro che sono partiti e ci
hanno lasciato questo cammino pieno di spine. Sono loro ad averci aperto
il cammino verso la libertà con il loro sangue, quindi non sprecate
quei sacrifici nei calcoli dei politici e nei giochi della diplomazia.
Siamo
qui per completare ciò che i primi hanno iniziato e non ci devieremo da
questo cammino qualunque sia il costo. Gaza è stata e rimarrà la
capitale della fermezza, e il cuore della Palestina che non smette mai
di battere, anche se la terra diventa troppo stretta per noi.
Quando
ho assunto la guida di Hamas a Gaza nel 2017, non è stata solo una
transizione di potere, ma piuttosto una continuazione di una resistenza
iniziata con le pietre e proseguita con le armi. Ogni giorno sentivo il
dolore del mio popolo sotto assedio e sapevo che ogni passo verso la
libertà aveva un prezzo.
Ma vi dico: il prezzo della
resa è molto più grande. Pertanto, aggrappatevi alla terra come una
radice si aggrappa al suolo, poiché nessun vento può sradicare un popolo
deciso a vivere.
Nella battaglia Al Aqsa Flood, non
ero il leader di un gruppo o movimento, ma piuttosto la voce di ogni
palestinese che sogna liberazione. Sono stato guidato dalla mia
convinzione che la resistenza non sia solo una scelta, ma un dovere.
Volevo
che questa battaglia fosse una nuova pagina nel libro della lotta
palestinese, dove le fazioni si unissero e tutti si schierassero in
un’unica trincea contro un nemico che non ha mai distinto tra un bambino
e un anziano o tra una pietra e un albero.
Al Aqsa
Flood è stata una battaglia delle anime prima ancora dei corpi e della
volontà prima delle armi. Quello che ho lasciato dietro di me non è
un’eredità personale, ma un’eredità collettiva per ogni palestinese che
ha sognato libertà, per ogni madre che ha portato sulle spalle il figlio
martire, per ogni padre che ha pianto amaramente per sua figlia
assassinata da un proiettile traditore.
Le mie ultime
volontà sono quelle di ricordare sempre che la resistenza non è vana e
non è solo un proiettile sparato; è piuttosto una vita vissuta con onore
e dignità.
La prigione e l’assedio mi hanno
insegnato che la battaglia è lunga e la strada difficile, ma ho anche
imparato che i popoli che rifiutano di arrendersi creano i propri
miracoli con le loro mani.
Non aspettatevi che il
mondo faccia giustizia per voi; ho vissuto e testimoniato come il mondo
rimane muto di fronte al nostro dolore.
Non
aspettatevi giustizia; siate giustizia. Portate il sogno della Palestina
nei vostri cuori e trasformate ogni ferita in un’arma e ogni lacrima in
una fonte di speranza.
Questa è la mia volontà: non
abbandonate le vostre armi, non gettate pietre, non dimenticate i vostri
martiri e non compromettete un sogno che vi spetta di diritto. Siamo
qui per restare, nella nostra terra, nei nostri cuori e nel futuro dei
nostri figli.
Vi affido alla Palestina, la terra che
ho amato fino alla morte e il sogno che ho portato sulle spalle come una
montagna indomita.
Se cado, non cadete con me;
portate per me uno stendardo mai caduto e fate del mio sangue un ponte
per una generazione più forte nata dalle nostre ceneri. Non dimenticate
mai che la patria non è una storia da raccontare ma piuttosto una realtà
da vivere; da ogni martire mille combattenti della resistenza nascono
dal ventre di questa terra.
Se l’inondazione ritorna e
io non sarò tra voi, sappiate che sono stata la prima goccia nelle onde
della libertà e ho vissuto per vedervi completare il viaggio.
Siate
una spina nella loro gola, un’inondazione senza ritirata, e non
calmatevi finché il mondo riconoscerà noi come i legittimi proprietari
del diritto; noi non siamo numeri nei bollettini delle notizie.
Che Dio ci guidi e protegga tutti.
"Non
sono mai stata una politicante e difficilmente lo sarò. Non ho seguito
un'ideologia non riconoscendomi in quelle storiche. Potrei definirmi,
sì, una anarcoide, una anticonformista, una cagacazzo.
Soprattutto mi definirei un antifascista, anzi è l'unica cosa che so di essere.
E
non mi interessa di non appartenere, di avere poca identità, bensì mi
interessa combattere quel che è un ideale di un altro o, meglio, quelli
che sono i comportamenti.
Cari fascisti, oggi vi vedo apparire come i funghi, nutrendovi delle morti che hanno reso possibile la libertà di pensiero.
Sapete benissimo che quelli come me e i vostri avversari di ideali sono molto deboli politicamente.
Sappiate,
però, che c'è una cosa che ci rende invincibili: voi. Ci mettete tutti
dalla stessa parte, siete il capitano che non abbiamo.
Saremo sempre uno più di voi, sempre più forti ogni volta che metterete le nostre vite a repentaglio.
E' un pò come l'infinito matematico: ce n'è sempre uno più grande. "
Mi
sono seduta dalla parte del torto solo perché non c’era più posto.
Nessuno pertanto era al posto giusto. Da lì ho visto pagliacci seduti al
posto del re, la superbia seduta al posto dell’umiltà e la sensibilità
seduta tra i posti comuni. I sensibili erano contenti di occupare quella
sedia speravano di sentire tutto meno o di non sentirlo proprio.
Pensavano di essere guariti dal male della sensibilità. Di non sentire
più l’anima crivellata, il cuore battere all’impazzata e il cervello
arrovellarsi per ciò che altri neanche vedono. E gli insensibili si
proclamavano sensibili pur non conoscendo la profondità del dolore.
Tutti eravamo seduti ad aspettare, tutti sapevamo di occupare dei posti
che non corrispondevano al vero. Gli oratori parlavano pur non
conoscendo il significato delle parole. Chi inseguiva le etichette si
professava libero pur restando ingabbiato da preconcetti e pregiudizi,
ancorato dal partito preso. Chi amava diceva di non amare per paura di
perdere l’amore e chi non amava giurava amore eterno. Chi tradiva negava
e dall’altra parte si girava continuando ad urlare. Perché i traditori e
i bugiardi più urlano più vogliono ragione. Il silenzio è dei forti.
Sedevano gli ipocriti al posto dei sinceri e con la mano al petto
giuravano un po’ agli uni e un po’ agli altri distorcendo la realtà,
mentre i sinceri seduti tra gli ipocriti impazzivano di verità e con
occhi sgranati imploravano pietà. Parlò allora la coscienza. Il posto
che occupi è dentro il tuo cuore, lì trovati, abbracciati e qualunque
sedia ti daranno accomodati. E non importa chi sarai per gli altri, ma
chi sei per te. Solo tu conosci il peso del tuo cuore, l’onestà nel
trattarlo e la spiritualità di viverlo. Quelli senza coscienza rimasero
in piedi, trovando un difetto per ogni sedia.